Pubblicato su in FANA il 14 dicembre 2020.
Senso di responsabilità, educazione, rispetto altrui: sono espressioni che sentiamo di continuo e che già conosciamo. Anche quando si trattava di imporre dei limiti ai rumori in strada, all’uso dei cellulari sui treni e altre questioni incipienti, si parlava di educazione del singolo che viene prima di ogni restrizione: una riluttanza quella di imporre divieti nel nostro paese su cui spesso si è riflettuto. Attualmente le disposizioni per evitare il contagio sono vigenti ma si lamenta che non vengano considerate a sufficienza, specie da parte di coloro che dovrebbero stare attenti verso chi è più vulnerabile. Ma se per alcuni giovani l’incoscienza prevale sul rischio di ammalarsi, responsabilizzarli sulla salute altrui è contrastante quando gli esempi di lassismo pervengono dal mondo adulto.
Del resto, se non ci si è riusciti in tanti anni nei confronti del codice stradale, com’è possibile ottenere rispetto adesso verso provvedimenti anti contagio per più aspetti incerti se non irrazionali?
E così si fa appello al buon senso del singolo come a un adolescente che viene mandato in gita con i coetanei senza peraltro chiedergli alcun sacrificio concreto in cambio. Ma responsabilizzare il singolo significa sottometterlo a modelli generazionali e di ruoli che nel tempo hanno perso autorevolezza: pensiamo solo al rispetto a prescindere di cui in passato godeva un insegnante da parte dei genitori. Responsabilizzare i cittadini tutti in situazioni di rischio significa renderli parte di una presunta mentalità condivisa e consolidata indipendentemente dalle circostanze. Succede però che dove non si è abituati al rispetto della cosa comune, specie in assenza di una regola precisa, si assista a manifestazioni di plateale leggerezza come in questi giorni di shopping natalizio a Milano: la gente va in giro visto che gli è consentito ma i comportamenti attenti e distanziati non sono stati ancora socialmente acquisiti.
Il singolo è responsabile della propria condotta sempre e in ogni caso ma i sacrifici che gli vengono richiesti, particolarmente pesanti per alcuni, necessitano di riscontro da parte di un ente superiore preposto: con provvedimenti che considerino ogni realtà territoriale, di equità per le diverse categorie professionali oltre che di trasparenza nell’impiego di fondi pubblici. Sapere che la sanità in stato di pandemia si è trovata inadeguata per la seconda volta è ancora più avvilente pensando a quanti in questi mesi è stato stato imposto di non lavorare fino a trovarsi in grossa difficoltà. E l’emergenza, in termini di tensione sociale, non può durare a oltranza perché col tempo ci si abitua anche a quella paura contro cui all’inizio si era tutti disposti a collaborare.
Una spinta dal basso a livello di prevenzione già c’è stata e forse non si poteva ottenere di più in un paese dove lo Stato non ha mai goduto di totale credibilità. Ma anche questa attenzione verso se stessi e gli altri rischia di svanire quando ancora necessaria se non corrisposta da interventi concreti e non soltanto divieti. Lo stato di allerta ha una sua presa sugli individui ma anche i messaggi più intimidatori perderebbero di persuasione dopo mesi che un vaccino, peraltro già testato, fatica ad essere distribuito, per questioni che il singolo nemmeno può conoscere nello specifico.